La normativa sulle cd. “società di comodo” fu istituita nel 1994 per contrastare l’utilizzo improprio delle società. In particolare l’obiettivo era di colpire quelle società che non avevano un interesse effettivo allo svolgimento di attività commerciali, bensì erano degli “schermi” utilizzati da persone fisiche per godere dei propri beni (ad esempio immobili ed autovetture di prestigio) ed al contempo beneficiare di regimi fiscali che altrimenti non sarebbero loro spettati.

In estrema sintesi il “meccanismo” della normativa in oggetto consiste nell’applicare dei coefficienti ad alcune delle voci dell’attivo dello stato patrimoniale (ad esempio, 6% agli immobili, 15% ad attrezzature ed impianti) e calcolare, in questo modo, il “ricavo minimo” che la società deve raggiungere. Qualora ciò non avvenga, tramite altri coefficienti, viene calcolare un “ricavo minimo” con il quale, di fatto, vengono disconosciuti tutti i costi. L’aspetto di particolare gravità è che la normativa prevede l’inversione dell’onere della prova, quindi, in presenza delle condizioni sopra esposte, sarà il contribuente a dover dimostrare che i ricavi dichiarati sono veritieri e, soprattutto, l’impossibilità di realizzarne di maggiori!

La normativa ha avuto varie modifiche ed è in particolare dal 2007 che è diventata particolarmente incisiva con un conseguente proliferare di contenziosi tributari. Quello che in questo articolo si vuole brevemente esporre non è di certo una difesa delle fattispecie elusive, bensì di quelle casistiche che sono “finite nella rete” della normativa, ma ancor più della prassi e della giurisprudenza, che nulla hanno a che vedere con comportamenti illegittimi o fraudolenti.

A parere di chi scrive, una evidente “distorsione” nell’applicazione di questa norma è rappresentata dalla verifica dell’operatività della società che concedono in affitto un’azienda. In particolare se trattasi di aziende alberghiere che, per loro natura, comprendono importanti valori immobiliari nonché di arredi ed attrezzature e quindi presentano una “base imponibile” rilevante cui applicare le sopra indicate percentuali. Il rischio è quello di vedersi contestare maggiori canoni di affitto (pur in presenza di un contratto stipulato davanti ad un notaio). La norma inoltre non tiene conto del fatto che le aziende alberghiere (trentine) sono tipicamente stagionali. Per il tramite dell’Ordine dei Commercialisti di Trento la questione è stata portata all’attenzione dell’Agenzia delle Entrate e si è tentato di far inserire una previsione normativa che riducesse il rischio di accertamento per le aziende concesse in affitto ed effettivamente funzionanti.

Un’ultima segnalazione, che riguarda in modo generalizzato le imprese interessate dalla norma, riguarda il fatto che i coefficienti presi a riferimento per il calcolo del cd. “ricavo minimo” non stono stati adeguati al reale andamento del mercato immobiliare (e finanziario) e, quindi, il rendimento minimo richiesto per gli immobili è ancora fissato al 6%!

L’auspicio è che, quanto prima, vengano introdotti correttivi a questa norma che tengano conto di un leale e corretto rapporto tra Contribuente e Fisco.

Dott.Disma Pizzini